NULLA VERITAS SINE TRADITIONE


8 dicembre 2018

8 dicembre: Festa dell'Immacolata




AVE, MARIA, GRATIA PLENA,
DOMINUS TECUM.
BENEDICTA TU IN MULIERIBUS,
ET BENEDICTUS FRUCTUS VENTRIS TUI, IESUS.
SANCTA MARIA, MATER DEI,
ORA PRO NOBIS PECCATORIBUS,
NUNC ET IN HORA MORTIS NOSTRAE.
AMEN.

3 novembre 2018

La Croce di Hendaye



Nel 1926, un misterioso volume rilegato in una lussuosa edizione di trecento copie, opera di una piccola casa editrice di Parigi, nota più che altro per le ristampe artistiche, tenne col fiato sospeso il mondo sotterraneo occulto parigino. Il suo titolo era "Le Mystere des Cathedrales" ("Il Mistero delle Cattedrali"). L'autore, Fulcanelli, asseriva che il grande segreto dell'alchimia, la regina delle scienze occulte occidentali, era chiaramente esposto sulle pareti della stessa cattedrale di Parigi, Notre-Dame-de-Paris.
La questione di Fulcanelli sarebbe stata motivo di interesse solo per gli specialisti della storia dell'occulto e psicologia anomala, fatta eccezione per il singolare mistero del capitolo extra aggiunto all'edizione del 1957 di "Le Mystere". Questa seconda edizione includeva un nuovo capitolo intitolato "La Croce Ciclica di Hendaye" e pochi altri cambiamenti nelle illustrazioni. Nessuna menzione circa questi cambiamenti appariva nella prefazione di Canseliet alla seconda edizione.
Dato l'utilizzo di Canseliet di qualsiasi altra cosa riguardante Fulcanelli, come dovremmo comportarci di fronte alla completa assenza di riferimenti a Hendaye nei lavori di Canseliet precedenti alla metà degli anni '50? Se il capitolo è opera di Champagne, allora Canseliet avrebbe dovuto saperlo. Non è una domanda triviale. Il capitolo su Hendaye è probabilmente il singolo pezzo esoterico più incredibile nella storia dell'Occidente. Offre prove che l'alchimia è in qualche modo connessa con l'escatologia, o il tempo della fine del mondo. E offre la conclusione che una doppia catastrofe sia imminente. Se Canseliet ne fosse stato a conoscenza, avrebbe sicuramente usato questo materiale, o quantomeno l'avrebbe menzionato. Tuttora, il silenzio è totale.
"La Croce Ciclica di Hendaye" è il penultimo capitolo del capolavoro di Fulcanelli. Dopo tutto il linguaggio tecnico ed erudito del resto di "Le Mystere", questo capitolo risulta chiaro e brillante proprio come la sua ambientazione basca. La descrizione del monumento e della sua collocazione è apparentemente chiara e diretta. Addirittura la stessa spiegazione apparente del monumento è semplice e virtualmente libera dal codice del Linguaggio Verde usato attraverso il resto del libro. O almeno, così sembra sulla superficie.
Possiamo datare la visita di Fulcanelli a Hendaye attorno ai primi anni '20 per il suo commento sulla speciale attrazione di una nuova spiaggia, piena di nuove ville. Oggi, Hendaye-Plage, la spiaggia aggiunta di Hendaye, pullula con boutiques, negozi di pesca ed emporii di tavole da surf, essendo diventata famosa come sosta forzata per il popolo internazionale di giovani nomadi con gli zaini a spalla.
Nonostante Fulcanelli dichiari, abbastanza ingenuamente «Hendaye non ha niente per attirare l'interesse del turista, dell'archeologo o dell'artista», la regione ha una storia piuttosto curiosa. Un giovane Luigi XIV incontrò sua moglie su un'isola nella baia sotto Hendaye, lungo il confine tra Spagna e Francia. Wellington passò di qui, facendo di St. Jean de Luz la sua base operativa contro Tolosa durante la fase finale delle Guerre Napoleoniche. Anche Hitler fece visita qui, durante la Seconda Guerra Mondiale; nel 1940 parcheggiò la sua macchina a breve distanza dalla croce di Hendaye.
«Qualunque sia la sua vera età, la croce di Hendaye mostra attraverso le decorazioni del suo piedistallo che è il più strano monumento del primitivo millenarismo, la più rara rappresentazione simbolica del Chiliaismo, che io abbia mai incontrato». Venendo da Fulcanelli in persona, questo è un grande vanto. Egli continua dicendoci che che «lo sconosciuto autore, che ha creato queste immagini, possedeva reali e profonde conoscenze dell'universo».
La Croce giace oggi in un giardino molto piccolo, a sud della chiesa. C'è un piccolo giardinetto con un parcheggio nelle vicinanze.
Alta circa 12 piedi, la Croce Ciclica di Hendaye padroneggia il giardino, come una misteriosa apparizione nella chiara luce del sole basco. Il monumento è marrone e scolorito, dall'alto dei suoi 300 e passa anni. La pietra inizia a crollare ed è chiaro che l'inquinamento - la croce siede a pochi passi da una strada trafficata sulla piazza principale - sta velocizzando la sua scomparsa. Le immagini e l'iscrizione latina sulla croce hanno non più di una generazione prima che l'inquinamento le spazzi via e il suo messaggio scompaia per sempre.
La base di pietra siede su una piattaforma larga ma irregolare di tre gradini, ed è vagamente cubica. Le misurazioni rivelano che sia un po' più alta di quanto non sia larga. Su ciascuna faccia ci sono curiosi simboli, una faccia di sole splendente somigliante ad alcuni dei solari americani, una strana formazione di "A" a forma di scudo tra le braccia di una croce, una stella con otto raggi e, il più curioso di tutti, una luna con faccia umana con un occhio prominente.

   

   

Su di questo piedistallo si eleva una colonna, che ricorda vagamente il classicismo greco, sulla quale poggia una croce greca rozzamente scolpita, con inscrizioni in latino. Sulla facciata con il sole, sul lato ovest, è possibile notare una figura con una doppia X sulla parte superiore della croce. Al di sotto, sul braccio trasversale, c'è l'iscrizione comune "O Crux Aves / Pes Unica": "Ave, o Croce, Unica Speranza". Sul lato opposto della croce superiore, in corrispondenza con la figura della stella, c'è il simbolo cristiano INRI.


Nel suo capitolo "La Croce Ciclica di Hendaye", Fulcanelli ci conduce in un tour guidato di questo monumento alchemico alla fine dei tempi. Inizia con l'iscrizione latina, che lui interpreta (in francese tradotto dal latino originale): «E' scritto che la vita troverà rifugio in un solo luogo». Continuando questa interpretazione, egli sostiene che la frase significhi «che esiste un luogo, un paese, dove la morte non potrà raggiungere l'uomo nel terribile momento del doppio cataclisma». Inoltre, solo un'elite sarà in grado di trovare questa terra.
Fulcanelli si sposta sull'iscrizione INRI, concludendo che: «abbiamo due croci simboliche, entrambi strumenti dello stesso supplizio. In alto c'è la croce divina, che semplifica il concetto scelto di espiazione; in basso c'è la croce globale, che fissa il polo nell'emisfero settentrionale e colloca nel tempo il periodo fatale di questa espiazione». La sua interpretazione esoterica di INRI, "dal fuoco la natura intera verrà rinnovata", conduce direttamente al discorso del Chiliasmo e alla distruzione purificatrice come preludio alla ri-creazione di un mondo paradisiaco. L'alchimia, secondo Fulcanelli, è il vero cuore dell'escatologia. Proprio come l'oro viene raffinato, così sarà raffinata la nostra era - dal fuoco.
Fulcanelli conclude il capitolo con una serie di metafore: «L'età del ferro non ha altro sigillo se non quello della Morte. Il suo geroglifico è lo scheletro, che porta gli attributi di Saturno: la clessidra vuota, simbolo del tempo che è finito, e la falce, riprodotta dalla figura del sette, che è il numero della trasformazione, della distruzione, dell'annichilimento». Fulcanelli ci confida: «il Vangelo di questa epoca fatale è quello scritto sotto l'ispirazione di S. Matteo. E' il Vangelo secondo la Scienza, l'ultimo di tutti ma per noi il primo, perchè ci insegna che, a parte un ristretto numero di persone (elite), periremo tutti. Per questo motivo, l'angelo è divenuto l'attributo di S. Matteo, perchè la scienza, che da sola è in grado di penetrare i misteri delle cose, degli esseri e del loro destino, puo' dare all'uomo ali per volare vero la conoscenza delle più alte verità, fino a Dio».
Dato che Fulcanelli ha collegato così apertamente Alchimia e Apocalisse, la vera natura di un meme gnostico e astro-alchemico è emersa nella coscienza collettiva. Questo significa che il segreto non è più custodito tra società elette. Per la prima volta sin dall'epoca delle cattedrali gotiche, il meme è riemerso dalle sue strutture di incubazione.
In un certo senso, la croce e il suo messaggio servono come prova che ci sono cose simili alle società segrete. Fondate nel corso della storia, queste società preservano e presentano il segreto della croce in diversi modi. La Kabbalah nel Giudaismo, il Sufi Islamico, la Cristianità esoterica, lo Gnosticismo e la Tradizione Ermetica sono stati i custodi di queste idee. Il messaggio centrale delle tre principali religioni occidentali, quello cioè che ci sia un momento escatologico nel tempo, è lo stesso segreto che giace nel cuore della croce di Hendaye. Il meme, l'abilità di capire il mito e le sue metafore, sembra essere sopravvissuto solo attraverso l'azione di queste società segrete e isolate.
La Croce di Hendaye si erge oggi nell'angolo sud-occidentale della chiesa di S. Vincenzo, l'angolo più trafficato della città. Nessuno nota il comunissimo monumento con il suo messaggio di catastrofe; probabilmente, era stato pensato proprio per essere così. Il segreto giace in bella vista.

Vincent Bridges

5 ottobre 2018

La medaglia di Campo dei Fiori



L'originale fu scoperto da Boyer d'Agen nel marzo del 1897 al mercato delle ferraglie di Campo dei Fiori a Roma. È un pezzo di ottone, con un diametro di 36 mm. Il viso ha un profilo maschile, capelli lunghi e barba corta, rivolto a sinistra e incorniciato da lettere ebraiche. Questo profilo somiglia ai ritratti di Cristo più verosimilmente autentici: il velo di Veronica, l'immagine di Edessa (a Genova), la Sindone di Torino. Essa corrisponde alla descrizione di Gesù fatta da Publio Lentulo, governatore della Giudea durante il regno di Tiberio Cesare e alle visioni di Anna Caterina Emmerick. Sulla destra del ritratto figura la lettera "Aleph" (natura divina, divina e umana, la verità, l'amore universale) e a destra le lettere "Yod, Shin, Vau" (evidente contrazione di Yeschouah, vale a dire, Gesù). Il retro reca un testo ebraico che significa: «Il Messia regnò. Egli è venuto in pace e, Luce dell'uomo, infatti, Egli vive».

Questa medaglia, della migliore fattura possibile, risale a prima della fine del terzo secolo. Cristiana e recante un testo ebraico, questa medaglia era quindi destinata ai cristiani, ebrei, che avevano ancora familiarità con la loro lingua sacra. Tuttavia, ne hanno poi perso l'uso a beneficio del greco a partire dal 135 (distruzione di Gerusalemme e diaspora). Meglio, redatta in un linguaggio chiaro, essa deve risalire a prima delle repressioni del 70 in Giudea, dell'imperatore Tito, e anche del 66 in Galilea, di Vespasiano, perché in seguito i cristiani adottarono per prudenza dei simboli allusivi (pesce, agnello...).

Prima delle persecuzioni, questo pezzo probabilmente servì agli ebrei cristiani come attestazione battesimale o eucaristica. Durante le persecuzioni (fino al regno di Diocleziano nel 305), mostrata con prudenza, doveva servire come segno di riconoscimento tra i discepoli di Cristo.

2 settembre 2018

Il Giglio e il Tridente




24 giugno 2018

L'origine celtica di Gesù



Durante tutto il primo millennio a.C., la civiltà celtica raggiunse la sua massima espansione spingendosi anche oltre i limiti del continente europeo. I Galati, che i Romani chiamavano Galli, erano un popolo di stirpe celtica, che si stabilì nel III sec. a.C. prima in Tracia e poi nella Galatia, una regione storica che corrisponde all'odierna Anatolia centrale.
Anche la regione della Palestina settentrionale, a occidente del Lago di Tiberiade, formato dal fiume Giordano, prende il nome dai suoi abitanti di stirpe celtica, come chiaramente evidenziato dal nome che i Greci prima e i Romani poi gli assegnarono: Galilea.
Da alcuni documenti storici abbiamo alcuni indizi sull'origine celtica dei suoi abitanti, come per esempio il riferimento all'agricoltura. Sappiamo infatti che i Celti erano degli straordinari coltivatori, abilissimi nell'aumentare la capacità produttiva dei terreni.
Il quadro climatico del I sec. era in realtà assai diverso da quello attuale, basti pensare che nel sud della Britannia il clima era così mite che si poteva coltivare la vite. Anche oggi la Galilea, seppure più arida, ha comunque un clima particolarmente mite grazie all'influsso del lago, che favorisce la crescita della vegetazione.


Gesù, il cui nome è simile a quello del dio celtico Hesus, che con Toutatis e Taranis formava la triade divina celtica, nell'immaginario collettivo è sempre rappresentato come un uomo alto, con i capelli lunghi biondi e la pelle chiara, tratti certamente non mediorientali ma che probabilmente fanno rifermento ad un'origine ancestrale differente. Anche l'immagine ricavata dalla Sindone rivela lineamenti nordici.
Se si pensa, vi sono forti analogie tra la tradizione religiosa cristiana e quella celtica, proprio in alcuni punti fondanti del credo cristiano. Il battesimo visto come bagno purificatore e catartico di rinascita e liberazione dal male. Il sacrificio personale visto come offerta della propria vita per la liberazione dal male del proprio popolo. L'idea stessa di trinità è un'idea tipicamente celtica, basti pensare al simbolo del Triskell. Questi erano punti cardine nella vita dei Celti, che come sappiamo non erano una nazione ma un gruppo di popoli che condividevano una cultura comune.

L'ortodossia ebraica di Gerusalemme vedeva con diffidenza gli ebrei che vivevano in Galilea. C'era senz'altro nella Palestina del I sec. d.C. discriminazione da parte degli ebrei di Gerusalemme nei confronti dei Galilei. Discriminazione che non facevano per esempio i Romani, che erano invece abituati a convivere con i Celti. Per questo fu così difficile per Ponzio Pilato procedere alla condanna di Gesù.
In tale contesto storico culturale è possibile che la setta degli Esseni, di cui si dice facesse parte lo stesso Gesù, fosse una setta druidica celtica con influenze ebraiche. Gli Esseni erano soliti vestire di bianco ed erano dediti all'astrologia.

Alla morte di Gesù, la sua famiglia abbandonò la Palestina, per tornare nelle terre di origine. Secondo la leggenda, Maria Maddalena avrebbe raggiunto la Provenza e dato luogo alla dinastia dei re Merovingi. Giuseppe d'Arimatea sarebbe invece approdato in Britannia, divenendone il primo vescovo e fondando il primo monastero, dove era anche custodito il Santo Graal, che aveva portato con sé dalla Palestina.
Probabilmente, si tratta di leggende popolari tramandate fino ai nostri giorni, ma come accade per tutte le leggende è possibile che nascondano qualche verità. Fatto sta che fu proprio dalle isole britanniche che, nei secoli successivi, con i monaci irlandesi e il cristianesimo celtico partì l'evangelizzazione dell'Europa.

18 maggio 2018

La Chiesa di Cristo non è un gioco



Ogni commento ci sembra superfluo.


14 aprile 2018

Il mistero dei Baschi. Alle origini della civiltà occidentale



I Baschi sono un caso unico nel nostro continente. Ormai confinati in una piccola area geografica a cavallo dei Pirenei, sembrano aver conservato intatto il proprio patrimonio genetico e i propri costumi.
Ma qual è la loro origine? Da dove provengono questi abitanti delle montagne pirenaiche e cantabriche, che parlano una lingua in apparenza senza parentela con quelle conosciute in Occidente? Quale mistero si cela dietro alla loro inesausta sete di indipendenza?
Charpentier ricostruisce la loro lunga e suggestiva vicenda, in un viaggio che dalla preistoria arriva fino a oggi, attraverso racconti tradizionali, l'archeologia, l'antropologia e gli studi ematologici. La sorprendente conclusione è che i Baschi possono essere gli eredi diretti dell'uomo di Cro-Magnon. Si determina così uno stretto legame fra essi e i pelasgi, i berberi, i guanci e gli egiziani dell'epoca prefaraonica, tutti popoli che appartengono a questa tipologia di uomo preistorico.
La loro civiltà ci ha lasciato meravigliose pitture rupestri, i monumenti megalitici e probabilmente anche l'allevamento e l'agricoltura; proprio per questo uno studio approfondito, anche al di fuori dei criteri utilizzati da studiosi e accademici, può servire a far luce su tutta la civiltà occidentale.
E del resto, addentrandosi nei labirinti della storia basca e nella sua mitologia, potrebbe anche capitare di trovare una conferma dell'esistenza di quell'isola di Atlantide di cui raccontava Platone.
Chi erano allora questi Baschi? Un popolo strano, in verità, che occupava la costa atlantica dai monti Cantabrici fino a Bordeaux e ai Pirenei da Tarbes a Hendaye e che non somigliava per niente agli altri popoli, né nell'aspetto né nei costumi. Un popolo di coltivatori, allevatori e marinai che, attraverso le guerre e le invasioni, aveva accanitamente conservato la propria indipendenza; un popolo che parlava una lingua senza nessuna parentela con quelle conosciute in Occidente e la cui origine sfuggiva alla storia, ma non alle leggende.
La questione dell'origine dei Baschi ha incuriosito un gran numero di persone, tra cui alcune molto colte...
Chi era dunque questo popolo, stanziato sulle montagne dei Pirenei occidentali e sui loro prolungamenti cantabrici?
Chi era questo popolo che né celti, né romani, né visigoti, né franchi, né mori riuscirono mai a colonizzare, che possedeva una rara abilità nei giochi, che ballava delle danze sorprendenti e costituiva quello che adesso gli archeologi chiamano l'isola relittuale basca ed è classificato, in mancanza di denominazione più appropriata, nel tipo archeomediterraneo?
In qualche modo costretti, i celti li avevano evitati e aggirati nel loro viaggio verso la Galizia. I romani, benché molto curiosi dei popoli che li circondavano, non riuscivano a identificarli chiaramente e li consideravano, a quel che sembra, come una varietà di Iberi.
Giuseppe Flavio, nelle sue "Antichità giudaiche" (ma per lui l'unica fonte era la Bibbia), attribuisce il nome di iberici ai discendenti di Tubal o Tobel, nipote di Noè.
Tolomeo, che ne segue le indicazioni, chiama gli iberici tubaliani. Questo crea qualche difficoltà perché ci sono altri iberici nel Caucaso, tra il Mar Nero e il Mar Caspio...
Quando il cristianesimo si affermò, fu necessario ricollegare i Baschi alle origini bibliche dell'umanità. Si costruirono delle leggende sulla base della Bibbia o altre più antiche vennero adattate alla dottrina cristiana.
Una di queste leggende racconta che un giorno Tubal, figlio di Iafet e nipote di Noè, mentre attraversava in barca il mar Mediterraneo, da oriente verso occidente, fu spinto nelle acque misteriose di un rio (che da allora fu l'Ebro) e, risalendo la corrente, raggiunse Varea. La bellezza del paese meravigliò i marinai e la terra li ammaliò. Alcuni vi si fermarono per stabilirvisi (si trattava della regione della bassa Rioja), altri si spinsero oltre e proseguirono il loro cammino fino ai Monti Cantabrici (unione del basco "Kant", dopo, e "Abre" o "Ebre", quindi vicino all'Ebro).
Era forse un'antichissima leggenda sullo sbarco, rimaneggiata secondo il gusto dell'epoca? È impossibile essere categorici; possiamo solo notare che esisteva anche in Galizia (dove i bascoidi hanno lasciato delle tracce) una leggenda sullo sbarco di Noè dopo il diluvio e, a partire da quella, "si rimaneggiò" la leggenda cristiana di Santiago.
Vi fu, dopo il cataclisma che i cristiani chiamano diluvio, uno sbarco di persone cacciate dalle loro terre? Non è un'ipotesi impossibile...
Roderico di Toledo (libro I, capitolo 3), da parte sua, è categorico e informato: «si concorda anche sul fatto che la Spagna abbia portato, nei primi tempi, il nome di Setubalia, che non è altro che l'unione di tre parole "sein", "tubal", "ria" o "Iia", che nell'antica lingua basca significano alla lettera: paese della discendenza di Tubal...».


Quasi tutte le teorie formulate in quel periodo menzionano una "venuta" dei Baschi dai paesi del Vicino Oriente, come se fosse stato inconcepibile che essi si trovassero là da tempi immemorabili.
Numerose ricerche sull'origine dei Baschi si sono basate sull' "euskara", la lingua basca. In essa sono state trovate - e del resto non potrebbe essere altrimenti - numerose radici simili a quelle di altri idiomi, anche tra i più lontani. Delle radici identiche si trovano sempre, con un po' di buona volontà. Sono state così rintracciate delle affinità tra la lingua basca, le lingue altaiche, i dialetti eschimesi, quelli degli indiani d'America, del nord o del sud ecc...
Le radici comuni che erano state trovate si sono "dissolte" all'esame dei fatti e la maggior parte di quelle che ancora resistono (senza garanzie) sono in numero insufficiente per essere convincenti. D'altronde, anche se fossero sufficienti non potrebbero costituire una prova. Ci sono più parole celtiche, francesi, latine e spagnole nella lingua basca e più termini baschi nella lingua francese di quanto i francesi non immaginino generalmente, ma non per questo i Baschi sono celti, romani, spagnoli o francesi.
Sarà forse per avere la "coscienza pulita" che i discendenti dei celti, dei romani, dei franchi e dei visigoti, invasori di terre abitate, insistono per far riconoscere che dopo tutto, visto che gli abitanti di queste terre erano essi stessi degli invasori, defraudarli non significava altro che ristabilire la giustizia?
Tra le teorie delle invasioni, quella più seducente e, diciamolo, l'unica che potrebbe avere una parvenza di serietà nelle sue discordanze con le coordinate attuali della scienza dell'uomo, sarebbe la teoria dell'origine atlantidica del popolo basco (e di qualche altro), su cui sfortunatamente, finché Atlantide non sarà scoperta, sulla terra o sotto le acque atlantiche, si potrà solo fantasticare. Questo, però, non dà il diritto di rifiutarne la possibilità. Eppure, l'origine del ceppo è proprio là, in terra basca.

16 marzo 2018

Un libro da conoscere: "L'Occulte Catholique", di Josephin Péladan



L'Occulte Catholique, di Josephin Péladan, è un testo assai poco conosciuto ma collocabile, a buon diritto, nel ristretto Pantheon delle opere che costituiscono le fondamenta dell'altrettanto trascurato "esoterismo cristiano". Basterebbe infatti leggere libri come questo, per convincersi che il vero cristiano cattolico non ha alcun bisogno di trastullarsi alla ricerca di dottrine esoteriche, le quali spesso si rivelano eretiche e dunque in contrasto con gli insegnamenti della Chiesa. Analogo invito per quei presunti "cattolici" che hanno completamente smarrito la strada, ormai ridotti a servi sciocchi dell'altrui padrone.


16 febbraio 2018

La Religione Primordiale




Questa è, ai nostri tempi, la religione cristiana, conoscendo e seguendo la quale si ottiene la salvezza col massimo di sicurezza e di certezza.

Mi sono espresso così, facendo riferimento al nome e non alla realtà ch'esso designa. In effetti quella che ora prende il nome di religione cristiana, esisteva già in antico e non fu assente neppure all'origine del genere umano, finché venne Cristo nella carne. Fu allora che la vera religione, che già esisteva, incominciò ad essere chiamata cristiana. Quando, dopo la risurrezione e l'ascensione in cielo, gli Apostoli incominciarono a predicare il Cristo e moltissimi divennero credenti, fu ad Antiochia che per la prima volta, come è scritto, i suoi discepoli furono chiamati "Cristiani". Per questo ho detto: Questa è ai nostri tempi la religione cristiana, non perché un tempo non esistesse, ma perché più tardi prese questo nome.

(S. Agostino, Retractationes, 1,12,3)

13 gennaio 2018

Un Grande di tutti i tempi: Sant'Ilario di Poitiers



Ci fu un tempo nel quale la maggior parte degli uomini di Chiesa persero la Fede, pensavano di essere cattolici, ma, in realtà, seguivano gravi errori teologici, perciò il loro credo era corrotto e deviato. Per ben due secoli, dal IV al VII, l’eresia ariana imperversò sia in Oriente che in Occidente: elaborata dal monaco e teologo Ario, questa teoria sosteneva che la natura divina di Gesù fosse sostanzialmente inferiore a quella del Padre e che il Verbo di Dio non fosse eterno e increato. Sebbene Ario fosse stato scomunicato e la sua dottrina condannata, l’arianesimo resistette a lungo, tanto da diventare religione ufficiale dell’Impero romano durante il regno di Costanzo II. «Tutto l’orbe gemette riconoscendosi con stupore ariano» scrisse san Girolamo: l’errore, come il peccato, fa sempre gemere.
Errori e peccati, oggi, sono disseminati ovunque, anche nella Chiesa; ciò non permette la quiete né nella vita naturale, né tantomeno nella vita spirituale. Come allora si negava la totale divinità di Cristo, oggi si nega che la Trinità sia l’unico vero Dio per tutte le genti, cercando di unirle non nella Chiesa cattolica, ma in un’utopica alleanza di religioni diverse.
Il 13 gennaio viene ricordato un Santo e Dottore della Chiesa che fu essenziale, insieme ad alcuni suoi confratelli nell’episcopato, per il ristabilimento dell’ordine nel pensiero teologico e per il ritorno alla Verità: Sant’Ilario di Poitiers (310 ca. ‒ 367), paladino della Tradizione contro l’Arianesimo. Persino papa Liberio, per accondiscendere al potere politico dell’Imperatore Costanzo, spalleggiò gli ariani. Obiettivo di Costanzo fu quello di unire l’Impero sotto il pensiero ariano, ma gli ostacoli si chiamavano Sant’Atanasio in Oriente e Sant’Ilario in Occidente: il Vescovo di Alessandria e il Vescovo di Poitiers vi si opposero con forza e determinazione, ma con la mitezza della carità e della santità.
Disse Benedetto XVI nell’udienza generale del 10 ottobre del 2007: «Alcuni autori antichi pensano che questa svolta antiariana dell’episcopato della Gallia sia stata in larga parte dovuta alla fortezza e alla mansuetudine del Vescovo di Poitiers. Questo era appunto il suo dono: coniugare fortezza nella fede e mansuetudine nel rapporto interpersonale».
Questo europeo, Padre della Chiesa, fu un Defensor Fidei di immenso coraggio e di perfetta coerenza e consacrò la sua vita per proteggere e salvare la Fede nella divinità di Gesù Cristo, Figlio di Dio e Dio come il Padre, che lo ha generato fin dall’eternità. Scarne le notizie sulla sua esistenza, abbondanti le opere teologiche che ha consegnato alla Chiesa e alla storia. Di famiglia aristocratica gallo-romana e pagana, ricevette una solida formazione letteraria, si sposò ed ebbe una figlia di nome Abra. Appassionato della ricerca filosofica, scoprì il Cristianesimo e si convertì. Venne acclamato vescovo di Poitiers fra il 353 e il 354 e prese sotto la sua protezione San Martino, futuro vescovo di Tours.
Fra i suoi molteplici scritti troviamo il Commento al Vangelo di Matteo: il più antico in lingua latina. Nel 356 assistette al sinodo di Béziers, nel sud della Francia, il «sinodo dei falsi apostoli», come egli stesso lo chiamò, perché capeggiato dai vescovi filo ariani, i quali chiesero all’Imperatore la condanna all’esilio del vescovo Ilario. Nell’estate di quell’anno fu costretto a partire per la Frigia (nell’attuale Turchia), dominata dall’Arianesimo. Tuttavia egli riuscì a resistere e anche qui cercò di ristabilire l’unità della Chiesa sulla base della retta Fede formulata dal Concilio di Nicea (325).
Con questa intenzione scrisse la sua opera dogmatica più celebre: De Trinitate. Tornato in patria (360 o 361), l’influsso del suo magistero si estese ben oltre i confini della Gallia, in tutto l’Impero: Sant’Ilario fu un cristiano che non si inchinò al potere del mondo, ma al Regno di Dio.