8 dicembre 2015
Per "molti" o per "tutti"?
La risposta giusta è la prima. Lo aveva scritto Benedetto
XVI ai vescovi tedeschi. E avrebbe voluto che in tutta la Chiesa fossero rispettate
le parole di Gesù nell'Ultima Cena, senza inventarne altre come nei messali
post-conciliari.
Mentre il testo
tradizionale, nella sua versione base in latino, dice tuttora: «Hic est enim calix sanguinis mei […] qui
pro vobis et pro multis effundetur»,
le nuove versioni postconciliari hanno letto nel "pro multis" un
immaginario "pro omnibus". E invece di "per molti" hanno
tradotto "per tutti".
Già nell'ultima fase del
pontificato di Giovanni Paolo II si era tentato, da parte di alcuni, pochi, prelati
vaticani, tra i quali Joseph Ratzinger, di far rivivere nelle traduzioni la
fedeltà al "pro multis", ma senza successo.
Con Benedetto XVI papa, il
ripristino di una corretta traduzione del "pro multis" divenne da
subito un obiettivo della sua "riforma della riforma" in campo
liturgico.
Egli sapeva che avrebbe
incontrato tenaci opposizioni. Tuttavia non ha mai temuto di prendere decisioni,
anche forti, come prova il motu proprio "Summorum Pontificum",
del 2007, per la liberalizzazione della Messa secondo il rito tradizionale.
Di seguito, il testo della
lettera della Congregazione per il
Culto Divino, sulla traduzione di "pro multis" nella Consacrazione
del Calice, a suo tempo predisposta da S.E. il Card. Arinze e diretta ai presidenti delle
Conferenze Episcopali.
Congregatio
de Cultu Divino et Disciplina Sacramentorum
Roma, 17 Ottobre 2006
Prot.
N. 467/05/L
Eminenza
/ Eccellenza,
Nel mese di luglio del
2005 questa Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti,
d'accordo con la Congregazione per la Dottrina della Fede, ha scritto a tutti i
presidenti delle conferenze episcopali per chiedere il loro parere autorizzato
sulla traduzione nelle diverse lingue nazionali dell'espressione pro multis
nella formula della consacrazione del prezioso Sangue durante la celebrazione
della santa Messa (rif. Prot. N. 467/05/L del 9 luglio 2005).
Le risposte ricevute dalle
conferenze episcopali sono state studiate dalle due Congregazioni e un rapporto
è stato inviato al Santo Padre. Secondo le sue direttive, questa Congregazione
scrive ora a Vostra Eminenza / Vostra Eccellenza nei termini seguenti:
1. Un testo corrispondente
alle parole pro multis, tramandato dalla Chiesa, costituisce la formula
che è stata in uso nel rito romano in latino fin dai primi secoli. Negli ultimi
trent'anni, più o meno, alcuni testi approvati in lingua moderna hanno
riportato la traduzione interpretativa "for all", "per
tutti", o equivalente.
2. Non vi è alcun dubbio
sulla validità delle messe celebrate con l'uso di una formula debitamente
approvata contenente una formula equivalente a "per tutti", come già
ha dichiarato la Congregazione per la Dottrina della Fede (cfr. Sacra
Congregatio pro Doctrina Fidei, Declaratio de sensu tribuendo adprobationi
versionum formularum sacramentalium, 25 Ianuarii 1974, AAS 66 [1974], 661).
Effettivamente, la formula "per tutti" corrisponderebbe indubbiamente
a un'interpretazione corretta dell'intenzione del Signore espressa nel testo. È
un dogma di fede che Cristo è morto sulla Croce per tutti gli uomini e le donne
(cfr. Gv 11,52; 2Cor 5,14-15; Tit 2,11; 1Gv 2,2).
3. Ci sono, tuttavia,
molti argomenti a favore di una traduzione più precisa della formula
tradizionale pro multis:
a. I Vangeli Sinottici (Mt
26,28; Mc 14,24) fanno specifico riferimento ai "molti" (polloi)
per i quali il Signore offre il sacrificio, e questa espressione è stata messa
in risalto da alcuni esegeti in relazione alle parole del profeta Isaia
(53,11-12). Sarebbe stato del tutto possibile nei testi evangelici dire
"per tutti" (per esempio, cfr. Lc 12,41); invece, la formula data nel
racconto dell'istituzione è "per molti", e queste parole sono state
tradotte fedelmente così nella maggior parte delle versioni bibliche moderne.
b. Il rito romano in
latino ha sempre detto pro multis e mai pro omnibus nella
consacrazione del calice.
c. Le anafore dei vari
riti orientali, in greco, in siriaco, in armeno, nelle lingue slave, ecc.,
contengono l'equivalente verbale del latino pro multis nelle loro
rispettive lingue.
d. "Per molti" è
una traduzione fedele di pro multis, mentre "per tutti" è
piuttosto una spiegazione del tipo che appartiene propriamente alla catechesi.
e. L'espressione "per
molti", pur restando aperta all'inclusione di ogni persona umana, riflette
inoltre il fatto che questa salvezza non è determinata in modo meccanico, senza
la volontà o la partecipazione dell’uomo. Il credente, invece, è invitato ad
accettare nella fede il dono che gli è offerto e a ricevere la vita
soprannaturale data a coloro che partecipano a questo mistero, vivendolo nella
propria vita in modo da essere annoverato fra "i molti" cui il testo
fa riferimento.
f. In conformità con
l’istruzione Liturgiam authenticam, dovrebbe essere fatto uno sforzo per
essere più fedeli ai testi latini delle edizioni tipiche.
Le Conferenze episcopali
di quei paesi in cui la formula "per tutti" o il relativo equivalente
è attualmente in uso sono quindi invitate a intraprendere la catechesi
necessaria ai fedeli su questa materia nei prossimi uno o due anni per
prepararli all'introduzione di una traduzione precisa in lingua nazionale della
formula pro multis (per esempio, "for many", "per
molti", ecc.) nella prossima traduzione del Messale Romano che i vescovi e
la Santa Sede approveranno per l’uso in quei paesi.
Con l'espressione della
mia alta stima e rispetto, rimango della Vostra Eminenza / Vostra Eccellenza
devotissimo in Cristo
+ Card. Francis Arinze,
Prefetto
7 novembre 2015
Un simbolo della Tradizione: il Tridente
Il Tridente è un'arma ad asta, composta da
una lancia terminante con tre rebbi metallici. Identificato nell'antichità quale strumento di Poseidone/Nettuno, dio del mare, venne successivamente
adottato come simbolo dai primi cristiani ed assimilato alla croce, in
associazione con il Cristo-delfino.
3 ottobre 2015
Dies Irae
«Dies irae,
dies illa, dies tribulationis et angustiae, dies calamitatis et miseriae, dies
tenebrarum et caliginis, dies nebulae et turbinis, dies tubae et clangoris
super civitates munitas et super angulos excelsos».
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«Giorno
d'ira quel giorno, giorno di afflizione e di angoscia, giorno di rovina e di
sterminio, giorno di tenebre e di caligine, giorno di nubi e di oscurità,
giorno di squilli di tromba e d'allarme sulle fortezze e sulle torri d'angolo».
5 settembre 2015
Il Popolo del Grande Spirito
Come di
consueto, il 27 gennaio di ogni anno si celebra la “Giornata della Memoria” per
ricordare gli ebrei deportati e uccisi dal regime nazista, mentre altri e ben
più vasti genocidi sono stati rimossi completamente dalla coscienza comune
oppure, ancor peggio, giustificati in vario modo. Per vastità e modalità di
esecuzione, il più noto è senza dubbio quello dei nativi che popolavano
l’America settentrionale e che vengono normalmente chiamati Indiani o Pellerossa.
I motivi per cui tale genocidio sia passato in secondo piano, quando non del
tutto dimenticato, sono molti, ma nessuno assolutamente giustificabile. Il
massacro iniziò praticamente pochi anni dopo la scoperta del continente
americano e si concluse alle soglie della Prima Guerra Mondiale, quindi si
sviluppò lungo un periodo di tempo molto vasto e difficilmente delimitabile. Le
modalità del genocidio sono state molte, dall’eccidio vero e proprio di intere
comunità sterminate sistematicamente con le armi da eserciti regolari o da
soldataglie criminali assoldate alla bisogna per mantenere pulita l’immagine
dei governi ufficiali, alla diffusione intenzionale di malattie endemiche come
il vaiolo. A testimonianza di ciò, vale la pena di riportare le parole del
generale inglese Jeffrey Amherst nell’impartire un ordine al colonnello Bouquet
durante la rivolta di Pontiac nel 1763: “Farete bene a tentare di contaminare gli Indiani mediante coperte in cui
abbiano dormito malati di vaiolo, oppure con qualunque altro mezzo atto a sterminare
questa razza esecrabile…”. Altri metodi di genocidio furono la fame,
bruciando intenzionalmente i frutti della terra, o le deportazioni forzate
attraverso territori enormi per mezzo di estenuanti marce forzate in pessime
condizioni igieniche e climatiche.
Moltissimi
furono poi gli Indiani che perirono nelle guerre tra le varie potenze europee
che occupavano il suolo americano (Spagna, Inghilterra, Francia) e
successivamente durante la guerra d’indipendenza delle colonie americane. In
questi casi, gli Indiani che scelsero di servire dalla parte della causa poi
rivelatasi perdente (e purtroppo la maggioranza fece questa scelta prima con i
francesi e poi con le forze lealiste all’Impero britannico) andarono incontro a
durissime conseguenze. I coloni di origine europea non perdevano nessuna
occasione di provocare gli Indiani, spingendoli a commettere azioni violente,
attirandoli in risse, violando i loro territori di caccia, abbattendo in massa
i bisonti, vendendo loro alcool. I popoli indigeni di queste terre avevano una
lunghissima tradizione guerriera e una psicologia molto semplice, per cui un
torto fatto ad un membro di una tribù equivaleva per loro ad un atto di guerra,
scatenando la reazione indiana verso il “nemico bianco”, e in questi casi
vittime di tale reazione erano anche molti innocenti. Del resto queste reazioni
violente verso i coloni si dimostrarono ben più perniciose verso gli Indiani
che non verso i coloni stessi, i quali venivano aizzati volutamente da pochi
interessati alla vendetta e alla rappresaglia contro i “selvaggi”, rei
di terribili colpe, deumanizzati e dipinti agli occhi dell’opinione comune come
belve feroci da abbattere ad ogni costo. Un altro pretesto che veniva usato
contro gli Indiani era l’accusarli di “insensato
tradizionalismo”, ossia la loro legittima ostilità a sottomettersi ad
usi e costumi che non gli appartenevano e il rivendicare diritti (se di
rivendicazione si può parlare, perché chi da secoli vive in un determinato
territorio ed esercita la sua sovranità su di esso, lo può ben considerare la
propria Patria) su enormi porzioni di territorio, che i coloni non potevano
sfruttare. Evidentemente la violazione della sovranità nazionale degli altri
Paesi e la pretesa superiorità di uno stile di vita rispetto ad altri giudicati
selvaggi e l’intervento violento per imporre quello stile di vita è una
tradizione ben radicata nella cultura statunitense che perdura ancora oggi.
A tutto
questo si aggiungeva poi l’idea che la storia umana è fatta di scontri di
civiltà, e quindi una società più evoluta e più potente ha il legittimo diritto
di sottomettere con ogni mezzo, civiltà e culture più deboli e arretrate:
quindi gli Indiani, ritenuti inferiori e refrattari alla modernizzazione
anglosassone, non avevano alcun diritto ad ostacolare lo sviluppo del futuro
stato americano. Ironia della sorte, gli Stati Uniti sono quelli che si
ergeranno a giudici durante il "Processo di Norimberga"...
Altro
aspetto che pesa sulla vicenda del genocidio
è che gli Indiani, contrariamente ad altri casi similari, non si sono affatto
rassegnati più o meno passivamente allo sterminio, ma hanno reagito con
coraggio, affrontando la violenza dei colonizzatori con continui tentativi di
liberazione, sfruttando al meglio le loro antiche abilità guerriere, compensando
con l’astuzia e l’abilità l’enorme divario di forze in campo, riuscendo in più
occasioni a sconfiggere i loro avversari.
Come
purtroppo spesso accade, chi reagisce ad una violenza allo stesso modo è
vittima del diffuso ed ipocrita pensiero pacifista, quindi spesso si sentono
discorsi insensati nei quali gli Indiani assumono il ruolo dei “cattivi”, dei
guerrieri sanguinari, quindi la reazione dei colonialisti viene tutto sommato
giudicata legittima perché difensiva e questo getta ulteriore polvere sulla
vicenda rendendo difficile un giudizio obiettivo. La stessa cosa avviene quando
si considera il lungo conflitto israelo-palestinese, dove le forze di
resistenza vengono accusate di terrorismo, come se questo bastasse a fare
passare in secondo piano l’aggressione e la violenta e progressiva privazione
di territorio di cui la popolazione palestinese è vittima. Dopo aver
tratteggiato questo quadro, legato per lo più alla visione della società di
allora, va quindi analizzato il perché questo avvenimento così tragico sia
tuttora molto poco trattato dalle presunti “menti aperte” della civiltà
odierna. Se consideriamo i sopravvissuti al plurisecolare massacro, vediamo che
essi si attestano su circa 800.000 individui, di cui solo la metà di genetica a
prevalenza indiana, e che costoro coprono la fascia più povera della
popolazione statunitense. Basti pensare che il reddito medio settimanale di una
famiglia indiana negli USA è di 30 dollari (contro una media nazionale di 130);
che hanno una speranza di vita di 42 anni (contro i 67 della media nazionale);
una mortalità infantile e un tasso si suicidi tra gli adolescenti
rispettivamente di 5 e 10 volte superiore alla media nazionale; che i 45% degli
abitanti delle riserve è disoccupato e il 42% di essi è analfabeta. Va poi
sottolineato che i territori delle riserve sono ricchissimi di materie prime: l’80%
dell’uranio, il 40% del petrolio e il 75% del carbone, estratti negli USA,
provengono dalle riserve, ma lo sfruttamento di tali risorse è appannaggio di
una ventina di grandi compagnie che se ne dividono i profitti, mentre agli
Indiani non spettano che ridottissime provvigioni. Per coloro che cercano una
via di fuga dalle riserve, la situazione non migliora di certo: dispersi in
tristi realtà di degrado urbano, a cui ben pochi offrono un lavoro stabile,
emarginati e disprezzati, i discendenti delle antiche tribù indiane diventano
facili prede della droga, dell’alcolismo e della malavita. E’ logico quindi che
a ben pochi importa della loro sorte o dei soprusi subiti in secoli di
aggressione coloniale e di certo sono ben pochi tra di loro quelli che possono
usufruire dei mezzi di comunicazione di massa per far conoscere a quante più
persone i gravissimi torti subiti. Del resto, gli Stati Uniti, in questa fase
storica di progressivo appannamento della loro immagine a livello
internazionale, hanno ben poco interesse a farsi ulteriore cattiva pubblicità,
mostrando una delle più sanguinose basi su cui è stata costruita la loro
attuale potenza. Ad ogni modo, resta stridente il contrasto con quanto
accaduto alla comunità ebraica, i cui appartenenti oggi, in buona parte,
ricoprono cariche istituzionali importanti in molti organismi politici ed
economici a livello nazionale ed internazionale, sono proprietari di banche,
imprese multinazionali, radio, giornali e televisioni, oltre all’acquisizione
di parecchie simpatie negli ambienti più disparati. Se poi si paragona il
territorio-simbolo della comunità ebraica internazionale, ossia lo Stato di
Israele, potenza regionale militare ed economica, con le poverissime e
dimenticate riserve indiane, il quadro è completo. Ma ricordare il genocidio degli Indiani non appare utile: non rende, non rafforza l’immagine
delle potenze imperialiste, non genera profitti.
27 giugno 2015
Atlantide: il continente perduto
"Molte e grandi, pertanto, sono le imprese
della vostra città che noi ammiriamo e che sono scritte qui, ma fra tutte ve
n'è una che le supera per grandezza e valore: dicono infatti le scritture
quanto grande fu quella potenza che la vostra città sconfisse, la quale
invadeva tutta l'Europa e l'Asia nel contempo, procedendo dal di fuori
dell'Oceano Atlantico.
Allora infatti quel
mare era navigabile, e davanti a quell'imboccatura che, come dite, voi chiamate
colonne d'Ercole, aveva un'isola, e quest'isola era più grande della Libia e
dell'Asia messe insieme: partendo da quella era possibile raggiungere le altre
isole per coloro che allora compivano le traversate, e dalle isole a tutto il
continente opposto che si trovava intorno a quel vero mare. Infatti tutto
quanto è compreso nei limiti dell'imboccatura di cui ho parlato appare come un
porto caratterizzato da una stretta entrata: quell'altro mare, invece, puoi
effettivamente chiamarlo mare e quella terra che interamente lo circonda puoi
veramente e assai giustamente chiamarla continente.
In quest'isola di
Atlantide vi era una grande e meravigliosa dinastia regale che dominava tutta
l'isola e molte altre isole e parti del continente: inoltre governavano le
regioni della Libia che sono al di qua dello stretto sino all'Egitto, e
l'Europa sino alla Tirrenia. Tutta questa potenza, radunatasi insieme, tentò
allora di colonizzare con un solo assalto la vostra regione, la nostra, e ogni
luogo che si trovasse al di qua dell'imboccatura. Fu in quella occasione,
Solone, che la potenza della vostra città si distinse nettamente per virtù e
per forza dinanzi a tutti gli uomini: superando tutti per coraggio e per le
arti che adoperavano in guerra, ora guidando le truppe dei Greci, ora rimanendo
di necessità sola per l'abbandono da parte degli altri, sottoposta a rischi
estremi, vinti gli invasori, innalzò il trofeo della vittoria, e impedì a
coloro che non erano ancora schiavi di diventarlo, mentre liberò generosamente
tutti gli altri, quanti siamo che abitiamo entro i confini delle colonne
d'Ercole.
Dopo che in seguito,
però, avvennero terribili terremoti e diluvi, trascorsi un solo giorno e una
sola notte tremendi, tutto il vostro esercito sprofondò insieme nella terra e
allo stesso modo l'isola di Atlantide scomparve sprofondando nel mare: perciò
anche adesso quella parte di mare è impraticabile e inesplorata, poiché lo
impedisce l'enorme deposito di fango che che vi è sul fondo formato dall'isola
quando si adagiò sul fondale".
Platone, Timeo
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